Qualche giorno fa ho letto su Facebook un post in cui si parlava di com’era andata l’ultima edizione del JD Symposium, uno degli eventi più seguiti in Italia in tema di chirurgia implantare e implanto-protesi.
Stando all’autore del post, sembrerebbe che l’odontoiatria si stia concentrando esclusivamente sula gestione dell’osso residuo, con un abbandono sempre più importante di quelle che sono le tradizionali tecniche rigenerative.
Ora non mi va di entrare nel merito della questione anche perché francamente non credo di avere la competenza per esprimere un parere tecnico sulla bontà o meno di questo trend che, di fatto, sta interessando l’odontoiatria mondiale.
Quello su cui vorrei riflettere oggi prende le mosse da un commento di risposta al post. Per fartela breve, il Collega, professionista di notevole fama, ha affermato senza mezzi termini che l’odontoiatria corretta mira a preservare i denti, rigenerare dove neccessario, ecc. Subito sotto un altro utente gli ha fatto eco paventando, addirittura, un futuro roseo per odontologi (?) e medici legali.
L’odontoiatria sta andando dove spinge il mercato. E chi è che oggi spinge il mercato? Aziende e consumatori, in un continuo amplesso anorgasmico: le prime spingono con il marketing, i consumatori, a loro volta, prendono ciò che dal punto di vista del marketing è più appetibile e poi lo riverberano al punto da innescare un fenomeno virale.
È chiaro che i grandi trend del momento sono chirurgia computer guidata, carico immediato, impianti post-estrattivi, impianti tiltati, impianti ultra-short, zigomatici, ecc. Non sono neanche concetti nuovi: i nostri maestri, infatti, li applicano da decenni. Come più volte detto in altre sedi, sono sempre stato affascinato da quello che il prof Mauro Merli pubblicava prima del 2010 nel suo capolavoro, Terapia Implantare: già parlava di tutti quei topic che oggi sembrano così innovativi.
Quella odontoiatria lì, sicuramente corretta, bellissima e affascinante, si scontra inevitabilmente con tendenze, che invece, sono peculiari di questi nostri tempi: semplificazione dei processi, standardizzazione delle flussi, ricerca di risultati soddisfacenti con minori costi temporali, economici e biologici.
I pazienti che avevano 40 anni nei primi anni 2000 sono nati nel 1960, i famosi baby boomer per intenderci.
Un adulto dell’epoca aveva più problemi in bocca e un portafoglio in media più generoso. Non c’erano i social, internet non lo usava nessuno e la parola del dentista non si discuteva. Le poche cliniche d’eccellenza distribuite sul territorio non avrebbero mai saturato l’offerta ed erano in grado, più di tutte le altre realtà, di rispondere a una domanda tanto diffusa.
Oggi le cose cambiano perché il baby boomer ha superato i sessanta e, nonostante le grandi riabilitazioni cui si è sottoposto 25 anni fa, si ritrova con ancora un quarto della vita davanti, la voglia di masticare e la necessità di rimettersi seduto sul riunito.
Il quarantenne di oggi, invece, presenta una salute orale mediamente migliore, e le poche eccezioni rientrano in quella generazione nata a partire dagli anni ottanta: parliamo dei figli della digitalizzazione, della globalizzazione, del piccolo schermo e dei contenuti on demand. Le loro aspettative, per quanto opinabili, si riducono in tre parole: tutto e subito. Con un’attenzione all’estetica, ovviamente.
Sarà certamente capitato anche a te di ritrovarti a esporre piani di trattamento importanti con la fastidiosa impressione che la lingua parlata dai nostri maestri non risuona più nelle orecchie del paziente. E’ cambiata la percezione.
Non sto dicendo che quei discorsi non funzionano più in assoluto, semplicemente, se pronunciati dal dentista medio non fanno più quella grande presa, e il paziente alla fine si rivolge altrove, con il rischio di essere trattato peggio, se non addirittura truffato.
Al cambio di mentalità devi aggiungere la riduzione del potere di spesa e l’ingresso preponderante del terzo pagante, un fenomeno che potrebbe riguardare tutto il comparto privato entro i prossimi quindici anni.
Questi fattori concorrono a delineare un nuovo modello di buyer persona: vuole risultati soddisfacenti, in tempi brevi e con un occhio di riguardo alla spesa. È giusto? È sbagliato? Roma non è stata costruita in un giorno: anche io sono consapevole che per ottenere determinati benefici ci vuole tempo.
Dire: “Quelli non sono pazienti per me” è una scelta condivisibile, ci mancherebbe, ma ce lo possiamo permettere?
Per come la penso io, conoscere e applicare delle strategie che portino risultati concreti, soddisfacenti in un’ottica di semplificazione, potrebbe essere una scelta intelligente. E’ per questo che anche il messaggio predicato durante il Symposium JD ha il suo senso.
Non è l’unica strada, ma una strada da conoscere, una strada da percorrere meglio dei nostri colleghi dell’Est: noi che, una volta terminata la riabilitazione, possiamo continuare a lavorare su quei pazienti per promuovere risultati mantenibili negli anni. Questo è il discorso.
E’ chiaro che chi abusa di queste opzioni, non conoscendone i limiti, incorrerà in errori, spesso drammatici.
Come in tutte le cose, c’è sempre una via di mezzo.
Penso che dobbiamo imparare a pensare a cosa è buono e giusto per il nostro paziente a prescindere da quello che ci riesce meglio. E questo è davvero difficile! Gli unici colleghi che ritengo possano avere una visione talmente ampia da riuscire a discernere il buono da ciò che sanno fare meglio sono poche eccellenze di cui io probabilmente non faccio parte. Ma per noi comuni mortali il confronto con altri colleghi, quello vero, faccia a faccia, ci permette di nutrire una mentalità aperta e scevra da bias.
Fammi sapere che ne pensi.
Filippo